giovedì 14 aprile 2011

I VINCITORI DEL CONCORSO

Dopo tanta attesa e dopo esser stati costretti a dover posticipare per ben due volte la data della premiazione sono, anzi siamo davvero lieti di nominare oggi i vincitori di questo Concorso Letterario perchè il 14 aprile per noi non è una data qualunque, ma è quella che ci ricorda il compleanno della donna, della mamma e dell'Artista alla quale è dedicata questa rassegna: Cristina "Cris" Pietrobelli. Allora quale giorno poteva essere migliore di questo per decretare i primi tre vincitori di ciascuna sezione letteraria? io sinceramente credo nessuno e detto questo prima di svelare i nomi di chi ha vinto questa edizione 2010 ci tengo a fare dei ringraziamenti cominciando dalla dolcissima e competente Jolanda "Jo" Pietrobelli, editor ed organizzatrice della competizione che ha creduto in me, nelle mie capacità gestionali e "competenze" artistiche per la realizzazione di questo concorso che per la prima volta è stato organizzato completamente online; l'ho già ringraziata personalmente, ma ci tenevo a farlo pubblicamente: come pubblicamente voglio ringraziare Massimiliano Pegorini, un Artista davvero completo che ha messo a disposizione del Premio Cris Pietrobelli tutto il suo entusiasmo e la sua esperienza. Concludo ringraziando tutti gli Autori che hanno preso parte al concorso ed hanno avuto la pazienza di saper aspettare quando abbiamo avuto delle difficoltà e mi hanno riempito la casella postale di mail con consigli, critiche, impressioni, complimenti e tanto altro ancora. Mi sono divertito ed emozionato leggendo i vostri manoscritti che indipendentemente da come è andato poi il concorso sono tutti pieni di sogni e ai sogni bisogna continuare a credere...sempre. A tutti voi mando un caro in bocca al lupo ed un invito a scrivere e a crederci sempre, con la speranza di incrociare ancora i nostri destini e le nostre penne vi saluto con affetto.

Tiziano De Martino

SEZIONE NARRATIVA
1. Athe Gracci - Il podere del nonno a Vicopisano
2. Pasquale Faseli - Una scuola di Mafia
3. Marco De Mattia - Gomma Pane

SEZIONE POESIA
1. Sir Ardor D.Drake - Cuore di drago
2. Francesca Napoli - L'altalena di Alzheimer
3. Patrizia Chini - Il verde sereno degli olmi

SEZIONE FANTASY
1. Carlo Loforti - Le stanze della vista
2. Alexia Bianchini - Il Difensore
3. Mauro Banfi - Cosa sogna la mia gatta

Una segnalazione va al piccolo Michele Calandriello - Certa gente, che invitiamo a non smettere di scrivere.



martedì 24 agosto 2010

SCHEDE DI VALUTAZIONE

Roma: come precedentemente promesso ecco un brevissimo post di aggiornamento per rispondere ad alcune delle domande più frequenti che mi arrivano via mail o attraverso facebook cominciando col scrivere che anche se tutto sembra fermo (complici le vacanze estive) non è così, anzi sono (e siamo) in continuo "work in progress" ed ho da poco terminato di leggere tutti i racconti in gara; è stato un "lavoro" complesso, ma anche estremamente piacevole e devo dire che sono piuttosto soddisfatto del ritorno di "pubblico" che ha avuto questa prima edizione online del Premio Pietrobelli. Alla mia casella postale sono arrivate molte opere, alcune estremamente interessanti e ben scritte, altre un pochino meno anche se attraverso ciascuna riga di ciascun partecipante si "leggeva" una grandissima voglia di esprimersi, di raccontare e di raccontarSI. Sono molto felice che tutti quelli che mi hanno mandato un racconto, un saggio o una poesia hanno capito le molte difficoltà che abbiamo incontrato nell'organizzare questa rassegna-concorso mostrando un'estrema pazienza. Mi ha fatto molto piacere ricevere mail e messaggi di complimenti ed anche di critica costruttiva che considero spesso più utile delle belle parole; ma mi sto un pò perdendo così tornando al discorso dell'inizio di commento e del famoso "work in progress" vi posso solo dire che probabilmente questo "esperimento" non sarà l'ultimo e che in futuro forse ci sarà la possibilità di abbracciare nei nostri progetti anche altri campi artistici oltre a quello della scrittura creativa, che però adesso rimane la mia-nostra priorità; ed è per questo che a giorni vi arriverà in forma privata una Scheda di Valutazione sul vostro elaborato. La SDV è una mia iniziativa personale che influirà solo parzialmente sul giudizio finale e sulla selezione dei finalisti del concorso. Poche righe, qualche consiglio e qualche curiosità per cercare ove possibile di "migliorare" la vostra opera e di "migliorarmi" grazie al continuo confronto con chi condivide la mia stessa passione. Detto questo qualche risposta lampo: per ottobre dovrebbe concludersi il concorso con la nomina dei vincitori; sicuramente la narrativa ed il fantasy verranno unite come categorie e verrà premiato un solo scrittore; la Giuria, oltre al vincitore, provvederà a segnalare qualche autore considerato meritevole; i finalisti dovrebbero essere tre, ma visti i molti "lavori" di qualità è possibile un allargamento a cinque autori finalisti; ai finalisti, se ritenuto necessario, potrebbe essere richiesto l'invio di uno-due nuovi racconti-poesie per meglio giudicare e scegliere i vincitori; la pubblicazione verrà realizzata entro i 18 mesi previo accordo con la casa editrice responsabile; potrebbe essere realizzata un'antologia con tutti i racconti e le poesie ritenute migliori. Al momento mi sembra di aver scritto tutto; non mi resta che salutarvi ed augurare delle buone vacanze a chi ha la fortuna di essere ancora al mare, in collina o in montagna e un ben tornato a chi come me è di nuovo a casa...

P.S. spero sia di vostro gradimento la nuova veste grafica del sito...siamo in dirittura (quasi) finale e mi sembrava giusto un "cambiamento"...

lunedì 7 giugno 2010

AFRICA - LUCA CADEDDU (20)

Piove in Africamentre il resto va in fiamme
paradosso mortale
paradosso che ha fame
pochi uomini accanto a me
cantano sino a quando il sole si nasconde
mangiato dalla polvere
esce solamente per brillare
al vigliacco suono
del soldo sulla mano dell'uomo bianco
un uomo accanto a me sussurra
il tempo porterà alla luce ogni cosa.

Piove in Africa
mentre le strade
continuano a colorare rosso sangue
fucili e bombe
impediscono ad ogni cosa di udire
ombre che cadono come foglie morte
accanto a me
una madre col figlio
indifferenti sorridono e cantano
lei sa che la voce del bambino è diversa
sciocca e innocente
non cè esercito, non c'è bomba
che possa spazzarla via
persino quando si avvicina
per bisbigliare all'orecchio della madre
il tempo porterà alla luce ogni cosa.

IL PRIMO E ULTIMO AMORE - CLEZIANO RICCETTI (41)

Ricordo quando ero quasi un uomo, avevo 15 anni, ricordo che ero innamorato perso della ragazza di un amico di mio fratello. Impersonava la quint’essenza della bellezza. Ai tempi padroneggiavano al cinema film con Alvaro Vitali, Lino Banfi ed altri ancora di cui non ricordo il nome, c’erano donne come la Carmen Russo, la Edwige Fenech la Gloria Guida. Allora noi ragazzi correvamo al cinema a guardarle e a sognare di avere un giorno una ragazza simile a loro. Io l’avevo al mio fianco e ricordo che mi voleva un bene della madonna, ad ogni occasione mi abbracciava soffocandomi tra le tette, a quel tempo ero piu’ timido di adesso, diventavo rosso e certe volte mi nascondevo ogni qual volta veniva a far visita a mia madre.
Era una donna ed io solo un bambino. Ci masturbavamo in gruppo sognando la Carmen la Fenech e la Gloria, ognuno aveva la sua preferita, certe volte ne discutevamo anche da “veri uomini” come se stessimo parlando di cavalli o di macchine con tutte le prestazioni che puo’ dare l’una o l’altra, ma io sognavo lei. Ero un ragazzo fortunato, ricordo che presi la rosolia, ero a letto cercando di non grattarmi sotto consiglio di mia madre. La sentii che rideva con mia madre in cucina. Il suo riso mi riempi’ di gioia e mi spavento’, mi rannichiai sotto le coperte fingendo di dormire. Entro’ nella mia stanza ed il suo profumo mi assali’ fino a dentro le viscere. La sua bocca carnosa e rossa, il suo seno abbondante, i capezzoli scuri che tentavano di bucare la maglietta e io che tentavo di nascondere una dolorosa erezione. I lunghi capelli scuri che portava sempre sciolti come una piccola selvaggia mi accarezzarono il viso quando mi bacio’, mi strinse ancora una volta forte a se ed io non avevo scampo. Per la prima volta stavo soffrendo d’amore, questa malattia che rimane dentro di te per tutta la vita e che ogni volta quando meno te lo aspetti si fa viva e ti colpisce il cuore fino a spezzartelo.
Ero fiero e facevo l’uomo quando andavo al mare con lei. Una volta mi buttai sott’acqua per la vergogna di aver visto il suo seno che le fuoriusciva dal costume, stavo quasi morendo affogato, stavo morendo per tutta la tenerezza che mi dava, forse aveva capito che ero un ragazzo che aveva qualche problema con i propri simili, ero nato solitario, certe volte ero solo e ne soffrivo ma certe volte ne gioivo mentre altri coetanei mi guardavano di nascosto. Amici invidiosi per la nostra amicizia mi chiedevano tutti i minimi particolari, ci chiudevamo nella mia stanza e per un ora diventavo il protagonista raccontando il tutto lasciando il piu delle volte libero spazio la fantasia. Raccontai di aver fatto l’amore con lei, certo l’avevo fatto mentre ero rannicchiato nel mio letto a tarda sera, l’avevo fatta mia. Morivo di rabbia quando il ragazzo la faceva piangere, volevo abbracciarla, stringerla a me, farla mia per tutta la vita. Ero solo un bambino.
Ci incontrammo di nuovo che io ero un uomo. Avevo 25 anni e lei 35. Io mi bucavo e lei era in astinenza. Ci incontrammo in piazza, non una parola tra noi, solo uno sguardo ed un abbraccio da spezzare le ossa, piangemmo ognuno sulla spalla dell’altro. Le asciugai una lacrima dalla guancia e la guardai, era ancora bella, era ancora un sogno da far impazzire qualsiasi uomo o bimbo sulla faccia della terra. Poi l’istinto del tossico prese il sopravvento, comprammo della robba e andammo a casa sua. Casa sua era un letamaio, puzza di merda e vomito che provenivano dal cesso, piatti sporchi nel lavandino, mutande e calzini infeltriti da tutte le parti. Mi sedetti vicino ad un tavolo ed iniziai a far bollire dell’acqua nel cucchiaio con un po’ di limone e un’abbondante dose di eroina per festeggiare.
L’eroina mi ha sempre dato quel calore e affetto che non ho avuto dalla mia famiglia, mi bucavo e mi sentivo protetto e al sicuro, coccolato. Questa volta l’abbracciai, avevo perso un po’ di quella timidezza che avevo da bimbo e che mi aveva fatto tanto soffrire. La baciai con tenerezza, le sciolsi i lunghi capelli e per un attimo fui catapultato dieci anni indietro. Le raccontai del mio amore, ne rise e ne pianse con quella risata che solo lei aveva. Il mio cuore esplose, nella mia testa vorticavano scelte di vita diverse: un matrimonio, un figlio con lei, l’amore eterno, accettavo gia l’idea di essere simile ai miei simili che avevo tanto evitato quando ero giovane. Lei di nuovo pianse piano ed io di nuovo le asciugai le lacrime e la strinsi a me. Avevo ritrovato la vecchia droga che mandava avanti il mondo: L amore. Lei mi racconto’ della morte per overdose del suo ex a Berlino, dei suoi tre aborti, del carcere. Poi come un macigno che ti viene addosso mi dice:“Clezia’, devo dirti che sono sieropositiva”.
Non ricordo cosa dissi, cosa ci dicemmo, volevo solo fuggire, volevo solo non aver sentito quella rivelazione. Piansi come sto facendo adesso mentre ve lo sto raccontando. L’avrei voluta prendere a schiaffi e baciarla, avrei voluto salvarla e ucciderla per non farla piu’ soffrire.
Amore mio, non sono piu’, non ho piu parole, forse il mio amore e’ solo egoismo. Ora sento solo un silenzio dentro di me, non ho piu parole per maledire questo amore e questo mondo, non ho piu’ parole per confessarti che rimarrai nel mio cuore per tutta la mia stupida esistenza. Ti voglio bene, buona notte, buona notte Alice.

domenica 23 maggio 2010

COLORAMI - FABRIZIA ZAMMATTEO (43)

Nel nudo segno
mutevole rosso sorriso.
Parole incompiute
in lacrime di rugiada.
Lungo bacio
sui tuoi carichi
petali pesanti.
Tempo fermo
testimone in gialli tramonti.

PELLE - GLORIA BATTAGGIA (33)

Pelle contro.
La mia pelle contro la distanza di oggi, al confine di domani.
Contro la luce, la polvere di questo tempo.
Contro venti di burrasca e al sale sciolto.
Contro il ghiaccio del contatto e le parole senza oggetto.
Pelle contro il bacio della tua bocca, che mi rompe il cuore.
Che mi scompone il tempo.
Contro il vetro, di questa finestra, perche’ fuori piove.
E la pioggia contro , spinge sui nostri vetri ,
appannati.
Pelle, pelle vestita contro ogni fatica,
contro quello che io sono.
E sono.

mercoledì 12 maggio 2010

IL DIFENSORE - ALEXIA BIANCHINI (36)

Appoggiata a terra, con l’orecchio teso a sentire.
Sentire cosa poi, io non saprei dire, io ricordo solo frammenti.
Stralci di memoria riaffiorano sempre più spesso, mentre dovrei rimanere tranquilla, concentrata sul mio lavoro, sulla mia famiglia.
Mischio, confondo, sussulto. Cosa c’è dall’altra parte?
Io ricordo due occhi verdi, come quelli di un felino, oscuri e maligni, non umani.
Ricordo l’odore acre del sangue e grida, urla, così forti da terrorizzare ancora i miei sogni.
Ma cosa ci sia aldilà di quella porta, ancora non lo so. E forse sarebbe un bene non scoprirlo affatto.
Ma la curiosità è donna e io non riesco più a resistere a questa tentazione.
Ero solo una bambina quando mi sono ritrovata in questo mondo, catapultata da un altro spazio, un altro tempo. Ricordo quelle braccia forti, nerbute, che mi gettarono al di qua di questo varco.
Sola, spaurita, iniziai a piangere e non sentivo più gli odori della mia terra, il torpore di quei due soli grandi che riempivano il cielo di luce.
Mi trovarono dopo due lunghi giorni, addormentata dagli stenti, stremata dai pianti.
Mi assomigliavano quegli esseri indigeni, solo l’odore era acre e pungente. Io sentivo il loro sudore, ascoltavo la loro salivazione e il pulsare incessante nel loro petto, ma non capivo le loro parole.
Non ci fu nessuna risposta da parte mia. Zitta, intimorita, li seguii fuori da quello scantinato abbandonato e quando vidi come era fatto questo mondo rimasi pietrificata.
Era così diverso, così tetro. Rumori metallici, rimbombanti ed un continuo vociare che disturbarono i miei acuti sensi. C’era vita, centinaia di corpi, ma la vegetazione era quasi nulla, schiacciata da enormi edifici.
Solo un dolce canto mi destò da quell’incubo atroce: c’erano animali leggeri, che danzavano nel cielo, che mi ricordarono i Modian, i guardiani del tempio vicino a casa mia, creature intelligenti e aggraziate con cui era facile parlare dei propri problemi, dei propri dolori.
Ma a forza fui caricata in quella scatola strana, che in un lampo fece un gran frastuono, un rumore torvo, feroce e che una persona obbligò al movimento. Un auto, niente di ché per chi è nato in questo mondo, ma un mostro freddo e sconosciuto per me, che venivo da lontano.
Sono vissuta in un orfanotrofio, ho imparato le regole della vostra vita, la vostra lingua e anche se il male regna sovrano su questa terra, ho imparato ad amarvi.
Mi avete dato un nome, Solidea, e per questo vi ringrazio.
Apprezzo il cibo, la musica, la vostra immensa fantasia e mi sono ambientata, ho fatto amicizia, ho trovato un lavoro e mi sono innamorata, ma mi sono dimenticata di chi ero un tempo. La mia memoria si è offuscata, dimenticando i nomi dei luoghi, delle persone, scordando il motivo per il quale sono stata cacciata, ricordando solo quei meravigliosi volatili con cui parlavo da bambina.
Siamo uguali fisicamente, l’ho scoperto diventando mamma. Avevo il terrore dei vostri acuti esami, ma mi sbagliavo, nulla è apparso strano, diverso.
Poi tutto è cambiato. Mia figlia Arianna mi ha ridestato dal sogno, quando sei mesi or sono mi ha ingenuamente chiesto dove sono nata, come si chiamava sua nonna, suo nonno.
Come un lampo accecante, la mia mente si aperta all’istante. Ho ricordato questa maledetta porta, in questo schifoso luogo abbandonato e non sono più riuscita a vivere, qui con voi, come umana.
Vengo in questo luogo ogni giorno, e ascolto. Sento rumori strani, lontani attraverso il metallo, ma non ho il coraggio di aprire, so che qualcosa nella mia mente me lo impedisce.
Ho visto troppi film dell’orrore alla televisione, troppa fantascienza spaventosa, dove mostri dilagavano, stritolando le ossa di voi umani, lasciando solo tracce di sangue sulla terra.
Ho paura, io non ricordo.
Forse sono stata semplicemente cacciata, ma se siamo così simili nel corpo forse ci assomigliamo anche nel pensiero, e chi mai di voi caccerebbe una bambina dalla sua casa?
Quante domande, quanti dubbi nella mia testa. Ora che ho una famiglia mi sento responsabile di questa terra, ma l’odore che sento attraverso questa porta è un richiamo ai miei assopiti sensi e non riesco a starne lontano.
Mi appoggio, ascolto. Un grido atroce passa attraverso, arrivando al mio orecchio. E l’istinto prevale e non mi controllo.
Apro.
La vegetazione incombe sovrana, l’urlo riecheggia di nuovo. Non c’è tempo di pensare, non ci riesco. Attraverso il portale e chiudo, ormai sono qui, dall’altra parte.
Foglie immense mi sovrastano e nulla vedo se non il verde cangiante.
Seguo le grida, incedendo a fatica fra la vegetazione, vestita da cameriera con la divisa del bar dove lavoro da anni.
Rami, foglie, tagliuzzano le mie gambe nude, ma nulla sento se non il mio respiro che incalza, le vene che sembrano recuperare linfa vitale ed un energia mi assale, folgorando il mio corpo di scariche elettriche, facendomi sentire indistruttibile.
Scatto fulminea senza paura, assalendo una bestia immensa, da lunghe zanne. La sollevo senza sforzo lanciandola lontano.
Mi fermo, mentre il mio cuore decelera. Una figura giovane, piccolina, mi guarda impaurita. Allungo le mani, che avevo intravisto mutare poco prima e osservo la mia trasformazione.
Sono un gigante, riconosco nelle mie braccia così muscolose, le stesse che mi lanciarono al di là del portale. Poi tutto cambia, sembro rimpicciolire, tornare normale.
“ Chi sei?” chiedo a quella ragazza, che un istante prima avevo scambiato per una bambina.
Lei non risponde, ma si avvicina, prendendomi la mano, dolcemente, iniziando a camminare verso l’ignoto, attraverso il verde.
La osservo, è diversa da me. Ha una coda sinuosa che si muove ritmicamente, i capelli raccolti sotto un velo sembrano viola e gli occhi grandi più del normale non hanno ciglia.
Sento un battito d’ali, e la creatura di fianco a me esulta, con un urlo strano, ritmato, poi mi sorride.
La foresta termina d’incanto, mostrando un mondo verde di colline infinite. I due soli mi riscaldarono, tranquillizzando le mie paure.
È il mio mondo quello che vedo, ma ancora non conosco nulla del mio passato, per questo seguo la mia guida, che ogni tanto mi sorride, senza proferir parola.
Un sentiero ci porta ad un tempio antico, dove un grande volatile attende alla porta.
Mi osserva, e scorgo in lui un amico lontano.
“ Shivar “ dico, ricordando il suo nome, e lui spalanca le ali azzurre aspettando un mio abbraccio.
Ricordo il suo profumo, che ora assaporo ingorda, la morbidezza delle sue piume che mi piaceva accarezzare da bambina.
“Deana, sei tornata” mi dice con una lingua che ora rammento.
“Sono confusa, io non ricordo nemmeno chi sono, non rammentavo nemmeno il mio nome” gli dico perdendomi nei suoi occhi.
“Tu sei un Difensore, come tuo padre. Il tuo destino è legato alla tua terra, al mondo in cui sei cresciuta. La tua esistenza è legata ad una lunga attesa, nella speranza di non vedere mai i Gonax giungere dal cielo” dice Shivar, accarezzandomi i capelli.
“ La mia terra, questa? E chi sono i Gonax?” chiedo disorientata.
“La tua terra è il mondo in cui adesso vivi, celando nella tua vera natura una forza dirompente, necessaria nel caso in cui i Gonax, esseri immondi e spietati, raggiungano il tuo mondo attraverso lo spazio. Solo tu puoi fermarli, solo tu puoi difendere la tua gente” mi spiega Shivar.
“La mia gente…” dico, pensando ai terrestri.
Shivar racconta, di come questo pianeta verde sia un luogo vergine, incontaminato, dove i Difensori nascono, per poi essere inviati sugli infiniti pianeti del cosmo.
“E la ragazza?” chiedo.
“Sono indigeni del posto, che aiutano le gestanti a partorire” dice Shivar.
Mi guardo intorno, respirando a pieni polmoni. Quel dolce profumo lo assaporo ancora, non voglio dimenticare nulla di quel posto.
“Ora vado” dico seria.
“Lo so, è il tuo destino” dice Shivar stringendomi più forte.
“Sai, io ricordo due terribili occhi verdi” dico prima di andare.
“Sono i Gonax amica mia. Li hai visti trucidare tua madre. Vi eravate trasferiti da poco, ma l’attacco è stato fulmineo. Tuo padre è tornato qui, a Reesaar, con te fra le braccia e senza indugio ti ha mandata verso il tuo destino,senza avere il tempo di prepararti, per poi tornare al suo mondo per uccidere i Gonax” dice Shivar.
“Reesaaar” dico guardando i due soli.
“Torna quando vuoi amica mia” mi dice Shivar, mentre la ragazza si avvicina e mi prende per mano, per riportarmi nella foresta.
Chiudo la porta, ma questa volta non piango disperata.
Ora conosco la verità, non ho più paura.
Io, cameriera di un piccolo bar sono il Difensore di questo mondo.
Io vivo tra voi, amo mio marito e accudisco mia figlia, ora mi sento una terrestre, ma osservo il cielo, ogni giorno della mia vita, sperando che i Gonax non ci trovino mai.

SOLO UN ATTIMO ETERNO - FRANCESCO VITELLINI (33)

Rallenta il suo volo il gabbiano,
perdendo un battito d’ali su due;
l’aria si colora di silenzio e
il vento muta in brezza leggera;
il cervo nel bosco ferma la corsa,
orgoglioso sguardo volge in alto;
correnti impetuose s'arrestano,
e silenziose si fanno le onde;
l'ape operosa instancabile
si posa e rimane su un fiore;
nubi oscure gravide di pioggia
lentamente s’avvicinano buie
e il mondo trattiene il respiro
nella quiete prima della tempesta.

L'INCONTRO - DOMENICA FIORELLA RIGONI (41)

Il vecchio è seduto sulla panchina. Guarda il sole che sta tramontando. Sospira e batte il bastone per terra. Il cane alza un orecchio, apre un occhio e lo guarda, poi lo richiude, il vecchio non si è alzato.
Come ogni giorno sta lì sulla panchina. Davanti a quella tomba, e ricorda, come ogni giorno. Annuisce e parla da solo, anzi parla con lei. Quella sepolta lì sotto. Iris. Sua moglie.
Anche oggi le sta ricordando il loro primo incontro. Quello più vivo nella sua memoria ormai stanca.
“Ti ricordi Iris? Te l’ho raccontato tante volte di come ti spiavo. Mi sei sempre piaciuta Iris, sempre.“ Scuote la testa e pensa il vecchio, a com’era bella la sua Iris.
Gli sembra ancora di vederla indaffarata. Nel prato mentre sta stendendo il bucato. E chiude gli occhi e lascia che i ricordi arrivino, nitidi e belli. Belli com’era lei. Ci sprofonda dentro. Li rivive.
La vede sbuffare mentre solleva quella pesante coperta. Così bagnata deve pesare un quintale.
Indossa un vestito a fiori. Non ha molte pretese. Di questo lui ne è sicuro.
Eppure è così bella. I lunghi capelli castani legati dietro. La bocca piena e quegli occhi grandi, da cerbiatta. Vorrebbe conoscerla. Vorrebbe parlarle. Ma invece sospira continuando a guardarla.
Cammina a piedi nudi, nell’erba. Sotto quel sole cocente. Non sta mai ferma, mai.
Il rumore lo fa sobbalzare. Qualcuno ha bussato alla porta. Meglio andare a vedere.
“Ehi! Mi daresti una mano?” Sua madre che entra con le borse della spesa.
Esce con lei, l’aiuta a portarne altre dentro. “Cavoli quanti soldi ho speso!” Brontola mettendo il formaggio nel frigo. “Costa tutto così caro!”
“Ma dai! Ti lamenti sempre per nulla mamma.” Le dice con un sorriso.
Gli passa le bottiglie di passata. Sbuffa e scuote la testa.
“Ragazzi! Vedrai quando toccherà a te! Vedremo allora se dirai che mi lamento sempre per nulla.”
Esce di nuovo e porta l’auto in garage.
Torna in camera sua. Torna a guardare, ma lei non c’è più. Il prato è vuoto. Adesso è lui che sbuffa. “Meglio tornare ai miei compiti“ pensa. Domani avrà l’interrogazione in storia e se non studia prenderà sicuramente un brutto voto.
Il pomeriggio lo passa curvo sul libro. Ogni tanto sente la madre, di là. E ogni tanto sbircia fuori, ma di lei non c’è più nessuna traccia.
Scuote la testa. Sdraiato sul letto si dà dello scemo. Non capisce perché continua a spiarla. E a fantasticarci sopra. Chiude gli occhi e la rivede. Fa un sorriso, gli piace immaginare quello che potrebbe farle.
“E’ pronta la cena!” Grida sua madre dalla cucina.
Riapre gli occhi ed è ancora lì. Nella sua stanza che pensa a lei. A quella lei di cui non conosce nemmeno il nome. Di cui non sa nulla.
La televisione è accesa e sua madre è già a tavola. Mangiano in silenzio. Ognuno chiuso nei propri pensieri. Come ogni giorno. Da quando suo padre se n’è andato le cose stanno così. Hanno dovuto cambiare casa. In questa si sono trasferiti da poco più di un mese. Sua madre lavora come una matta per racimolare i soldi per vivere. Anche lui si dà da fare. Fa dei piccoli lavoretti in giro, nel pomeriggio dopo scuola, così si arrangiano.
Lei invece l’ha vista subito. Già quel primo giorno, appena arrivati. Stava togliendo i vestiti dalla valigia e lei era lì, in giardino. Cantava allegramente, anche quel giorno stava stendendo dei vestiti.
Non ha ancora trovato il coraggio di presentarsi. E’ un imbranato in fatto di ragazze.
Si alza e sparecchia la tavola. Sua madre sembra stanca. Lo guarda e fa un sorriso.
“Esco, devo andare a portare il cane dei Fantini a passeggio.” La saluta con un bacio ed esce.
Fuori è ancora caldo, nonostante siano le otto di sera. Attraversa la strada e s’incammina lungo la via. Alcuni bambini corrono sul marciapiede con la bicicletta. Li lascia passare e suona il campanello. La voce nel citofono è sempre quella del signor Fantini. Gli aprono.
“Oh, Lucio finalmente!” La signora Fantini che esce con il cane al guinzaglio. “Rufus ti stava aspettando.” Gli lascia il guinzaglio e lui lo afferra saldamente.
“Ci vediamo dopo.” Le dice uscendo dal cancello.
Rufus è un bell’esemplare di boxer. E adesso è tutto impegnato ad annusare per terra. “Ok Rufus, andiamo Va.” Dice tirandolo verso di lui.
Il cane strattona, tira e poi si ferma. Rapito da un odore nuovo. Annusa e immancabilmente lascia la sua firma. Perché questo è il suo territorio e vuole rimarcarlo per bene.
Sorride guardandolo. Gli sono sempre piaciuti i cani. Rufus poi è davvero bello.
Fanno il loro solito giro, come tutte le sere. Vanno al parco e qui si fermano. Piccolo riposino sulla panchina. Rufus si accoccola ai suoi piedi obbediente. Quella sera ci sono un sacco di bambini al parco. Si guarda in giro non conosce ancora nessuno in quel posto.
“Ehi! Ciao!” La voce è vicina. “Bello il tuo cane!” Commenta facendogli una carezza.
Si gira di scatto. Lei è lì, inginocchiata che accarezza Rufus.
La guarda meglio. Ed è un tuffo al cuore. È proprio lei, la sua vicina di casa.
“Come si chiama?” Chiede guardandolo.
Ha il cuore in gola. “Rufus, si chiama Rufus.” Dice con un filo di voce.
Gli sorride. Ed è davvero bellissima. Ma averla lì, davanti gli sembra così strano.
“E tu … come ti chiami?” Gli sorride. Continua ad accarezzare il cane.
“Lucio.” Risponde un attimo dopo. La guarda ancora. Il vestito è leggero, abbottonato davanti.
Si alza e gli porge la mano. “Io sono Iris.”
La prende e la stringe. Ma come ha detto è un imbranato con le donne, non riesce a dirle nient’altro. Resta semplicemente a fissarla.
Si siede sulla panchina, vicino a lui. “Non sei di qui, non ti ho mai visto prima. Vieni dalla città?”
Chiede incuriosita.
Scuote la testa. “No. Cioè sì. Prima stavo in città, ma ora abito in quella casa lì in fondo. Quella gialla.”
Lo guarda sorpresa. “Ma dai! Io abito in quella dietro!” Scoppia a ridere. “Siamo vicini allora!”
“Si.” Le risponde confuso.
Iris è davvero simpatica. Inizia a parlare del suo cane. Gli racconta di come è morto e di quanto le manca. Era un regalo di suo padre. Anche suo padre è morto. E lui l’ascolta rapito. Si perde nelle sue parole e nei suoi ricordi. E ad ogni sua parola gli piace di più. Il tempo passa troppo veloce. Ormai è buio e lui deve riportare Rufus a casa. Iris lo accompagna continuando a parlare. A raccontare.
Poi è lui che le racconta di se. Del perché suo padre se n’è andato e di tutto quello che gli viene in mente. Ormai sono arrivati. Sono davanti a casa sua.
“Sono stata bene con te.” Gli sorride. “Sei un ragazzo davvero simpatico. Possiamo rivederci se vuoi.”
Lui è felice. Certo che vuole rivederla. “Quando vuoi.” Le risponde. “Quella è la finestra della mia stanza.” Le dice indicando il lato della casa.
Scoppia a ridere. “Allora possiamo pure parlarci!” Lo guarda e si avvicina, gli stampa un bacio sulla guancia. “Ciao Lucio.” Poi entra di corsa in casa. Allegra e sbarazzina.
Resta un attimo a fissare la porta chiusa. Poi si gira e va a casa. Si tocca la guancia, dove lei lo ha baciato. Chiude gli occhi e sorride. Possibile, si chiede entrando in camera sua, possibile che sia successo?
Si sdraia sul letto e accende la radio. La musica dolce si diffonde. Chiude gli occhi e pensa a Iris. A quella ragazza bella, a quel piccolo bacio. Fa un sospiro. Si alza e guarda dalla finestra. La sua casa è buia. Nemmeno lui ho acceso la luce. Resta così, a guardare fuori, ad immaginare.
Poi la luce nella casa accanto si accende. Dietro le tende leggere vede qualcuno che si muove.
Spera che sia lei. Vorrebbe chiamarla. Ma non lo fa.
D’un tratto la tenda si apre e Iris appare alla finestra. Guarda verso di lui. Lo vede o forse no, non lo sa. Fa un sorriso e saluta con la mano. Si sporge un po’ e anche lui la saluta.
“Che fai? Mi spii?” Chiede ridendo. E lui annuisce. Perché non riesce a trovare le parole.
Scavalca ed esce. Adesso è lì, davanti alla sua finestra. È buio fuori, ci sono i grilli che cantano.
“Perché mi stai spiando?” Dice appoggiandosi con le mani sul davanzale.
Indossa un camicia da notte leggera. Bianca e leggermente trasparente. Si intravede il reggiseno, bianco anche quello. Si appoggia anche lui al davanzale. Non riesce a staccarle gli occhi di dosso.
Lei allunga una mano e gli accarezza il viso. Dolcemente. Scuote la testa. Si avvicina. Sente il suo respiro sul suo viso. È caldo e dolce. Ed è un attimo, si allunga un po’ e le sfiora le labbra con un bacio. Si appoggia semplicemente, dolcemente. Le sue labbra sono calde, invitanti. Le schiude lentamente. Inizia così, piano. Il loro primo bacio, la loro storia d’amore.
Il ritorno al presente è sempre brutto. I ricordi si annebbiano e il vecchio ritorna nel cimitero. Riapre gli occhi. È sempre così. Si alza a fatica dalla panchina. Si avvicina alla tomba e mette a posto il vaso di fiori. Iris amava tanto i fiori.
Il sole è appena tramontato. È ora di rientrare a casa. “Brutus!” Chiama.
Il cane alza le orecchie, anche lui è vecchio. Si alza lentamente e scodinzolando si avvicina al vecchio.
“Bravo Rufus. Andiamo a casa.”
Lancia un ultimo sguardo alla tomba. Manda un bacio a Iris e s’incammina aiutandosi con il bastone. Lungo il vialetto il cane tiene il suo passo stanco. Ormai sono tanti anni che si fanno compagnia. Da quando è morta Iris.
È un bravo cane, obbediente e tranquillo, sta pensando il vecchio. Soprattutto è un amico fedele.
Il cane scodinzola ancora. Anche lui pensa che quel vecchio sia un bravo padrone.
Non hanno fretta loro due, forse perché non c’è nessuno che li aspetta a casa.
Quei due vecchi amici, venuti a trovare il loro unico amore.
Se ne vanno così, con passo lento e il cuore pesante.

giovedì 22 aprile 2010

ANIMA - FABRIZIA FAVRO (30)

Per un solo attimo, mi fermo, aspetto e osservo…
il vento sfiora ciò che resta del tuo profumo ma non ha il coraggio di portarlo via con sé...
mi trascina via, e i capelli seguono la direzione..
no, il mio sguardo quello no, rimane lì dove ti ho incontrato..
dove, la prima volta, ti ho sfiorato
quasi per caso
quasi, volutamente per caso...
e intanto tu, silenziosamente rispondevi al grido d'amore dentro me.
L'assenza di suoni dava vita alla lettura di tante parole che ben custodivi in te . .
e così, ti ho letto, di colpo senza respiro..
in quel caduto istante la mia anima
s'indossava della sua giusta sostanza..
la tua
dava vita alla mia.
Ora lascio il posto a chi vorrà leggerti, caro Libro.

STIRPE MALEDETTA - FRANCESCA DI LIBERTO (21)

Oscuro sarà il giorno, poiché non più giorno sarà.
Lucente sarà la notte, poiché non più notte sarà.
Che rintocchino per te le tre campane, mortale, affinché cuore e corpo siano avvolti
Da un abbraccio eterno e fatale.
Sia reciso il filo che a questa vita di legava, mortale.
E si levi nel silenzio l’urlo maledetto, che appaia la creatura bianca che fu maledetta dalle tre.
Essa ti strapperà il respiro e ti condurrà nel regno dell’oscuro padre e dell’oblio.

Infine era successo, il silenzio l’aveva reclamata e accolta. Non soffriva più. E questo era un sollievo senza pari.
Un sollievo che non durò allungo.
La pace e il sollievo per chi lasciava questo mondo duravano assai poco, quel tanto che bastava a ucciderti una seconda volta e annullarti nell’oscurità più fitta.
Il trapasso era solo un viaggio o meglio… una caduta.
E nella caduta percepivi ancora tutto quanto, la tua anima viveva ancora e percepiva ogni cosa.
Freddo il corpo e freddo il cuore. Ma lei c’era ancora.
Proprio quando si era ormai rassegnata all’oscurità la luce l’accolse accecandola.
Percepì mani e voci, sguardi e suoni. C’era un mondo intorno a lei, ma lei non riusciva a parlare. Li vedeva ma la voce non usciva.
“Che sia condotta ai campi, spiegatele ogni cosa.” Vedeva il volto di tutti tranne quello della voce che stava parlando, e questo la rendeva triste, perché quella voce era calda e profonda. Le ricordava tanto un abbraccio.
Si sentì sollevare e portare altrove, il sonno la colse e ritornò nel silenzio.
Quando riaprì gli occhi si ritrovò in un campo, c’era la luna in cielo ma illuminava tutto come se fosse giorno,anche se il cielo era nero. Si alzò a sedere confusa e intontita. “Sei sveglia.” La giovane spostò lo sguardo verso la voce. “Hai tante domande lo so. Ma non riceverai risposta. Posso solo dirti che questo non è il mondo dei vivi.” La giovane sospirò, distolse lo sguardo. “Non volevi risvegliarti, hanno dovuto mandar me… non si fa cosi, sai? Perché non parli?” Colui che le stava parlando era un uomo, non aveva la voce calda come quella che aveva sentito ma era rassicurante, era un bel giovane dalla pelle olivastra e gli occhi verdi, i capelli neri. “Oh è vero, sei un anima ora… non puoi parlare. Ma aspetta… posso fare qualcosa per te.” L’uomo le si avvicinò e sfiorò le sue labbra con le proprie in un bacio casto, nonostante ciò lei percepì calore e il suo corpo sussultò. “Hai vissuto rettamente ti è stato concesso di mantenere una forma… umana. La parola è un mio dono, sappilo usare con intelligenza.” Provò a muovere le labbra ed esse si mossero, ma aveva paura, tutto ciò che le usci dalle labbra fu un suono strozzato, ma pur sempre un suono. “Hai visto? Puoi parlare…quindi parla e smettila di farmi parlare da solo, mi annoia.” La ragazza inspirò affondo e provò ancora… “Kayla.” Il suono uscì dalle sue labbra puro e melodioso, se ne vergognò e coprì le labbra con la mano. “Ricordi il tuo nome, è un gran passo avanti.” Sorrise l’uomo, allungò una mano verso quella di lei e la tolse dalla bocca. “E non vergognarti, qui nessuno ti giudica.” Le sorrise e lei ricambiò il sorriso. “Qui siete tutti uguali, non c’è differenza nella morte e forse questa è l’unica cosa giusta che vi è concessa.” L’uomo si alzò in piedi e lei corrugò la fronte. ”…Cosa sei, tu? Non hai un nome?” “Fenlun, sono un guardiano. Provvedo affinchè nessun’anima lasci questo luogo, guido coloro che giungono.” Kayla accennò ad una risatina “Sei una sorta di libro-guida del regno dei morti?” Fenlun annuì. “Sono sempre qui, chiama il mio nome se vuoi che venga da te. La morte dopo tutto non è una condanna è solo un viaggio verso qualcos’altro, una sosta prima di ricominciare.” Non attese che la giovane dicesse qualcosa, svanì nel nulla lasciando Kayla da sola.
Anche in quel luogo i giorni passavano, anche se il sole e quello che doveva essere il giorno era oscuro e senza luce, quel luogo era strano ed era particolare.
Kayla passò il suo tempo a gironzolare per quei campi e quei boschi, ad esplorare quel luogo che in qualche modo conosceva o per lo meno sentiva di conoscere. I suoi piedi la guidavano, la sua mente ricordava quel posto.
Quella non esistenza scorreva in quel modo, in solitudine e in attesa di un qualcosa che neanche lei riusciva a capire.
Vi era pace per lei in quella solitudine e la sua vita passata, la sua vita terrena svanì con il tempo, era lontana e lei non voleva più ricordarla.
Ciò che Kayla non sapeva e che quel regno non era poi cosi pacifico come appariva.
Non aveva più cercato Fenlun dal giorno in cui era arrivata, preferiva girovagare da sola spingendosi quanto più in la potesse. La voglia di conoscere e capire quel luogo era tanta, forse troppo.
Giunse ad un laghetto le cui acque erano nere come la notte, ancor più incuriosita si avvicinò alle sue sponde e allungò una mano per sfiorarne le acque.
Fu un gesto fatale il suo, nel momento stesso in cui le dita sfiorarono la superficie bianche mani cercarono di afferrarla, lei lanciò un urlo e cadde all’indietro, cerco di muoversi ma qualcosa la bloccava, alzò lo sguardo e vide un essere incorporeo dagli occhi rossi che affondava le sue dita nel proprio petto, la voce le mancò si sentì letteralmente risucchiare, era sempre più debole e aveva paura, tanta paura.
Era come morire in un certo senso ed era peggio, perché sentiva che stava per scomparire.
E questo non lo voleva.
Mosse le labbra più e più volte, pregando che uscisse un suono, che la sua voce lo chiamasse.
L’essere troneggiava su di lei e ormai aveva vinto, lei era debole, anche troppo.
“Fenlun…” Alla fine ci riuscì ma era troppo tardi, sentiva le palpebre pesanti e il sonno richiamarla… era come morire, di nuovo.
Ma una luce rischiarò quel luogo, una voce la richiamò e il peso opprimente sul suo petto scomparve.
“Kayla… dannazione! Kayla apri gli occhi!” Fenlun l’aveva salvata, aveva scacciato via quell’essere e ora la teneva fra le braccia.
Lei riaprì gli occhi e gli sorrise, ma non riusciva a parlare, non riusciva a muovere un muscolo di quel corpo.
“Non puoi andartene… Non lo posso permettere.” Fenlun la rimise per terra, sfilò un pugnale dalla cintola e si ferì al petto.
Quello che Kayla vide fu terricante e meraviglioso allo stesso tempo, il guardiano tagliò a metà il suo cuore, si avvicinò a lei, alla ferita che quell’essere le aveva procurato al petto e lasciò cadere quel frammento di cuore nel suo petto.
Qualche momento dopo sentiva che una forza senza pari si impadroniva di lei, che l’avvolgeva e la faceva sentire forte, viva.
La giovane si alzò a sedere fissando il guardiano. “Cosa… cosa hai fatto, Fenlun?” L’uomo appoggiò la schiena contro il tronco dell’albero, il petto ancora sanguinante ma la ferita si stava rimarginando. “Ti ho dato una seconda possibilità… ti ho donato parte del mio cuore affinchè tu non scompaia. E ti posso assicurare che saresti scomparsa… quell’essere ti aveva mangiato il cuore.” La ragazza sfiorò il petto con la mano, non c’era più nessuna ferita.”Ma cos’era?” “Una creatura degli inferi, un anima deviata… fra gli inferi e questo luogo vi è una sola barriera, una barriera che ogni tanto cede e permette a questi esseri di passare. Voi anime siete l’unico modo che hanno per non scomparire, la vostra essenza da loro forza, da loro modo di tornare nel mondo dei vivi. Noi guardiani dobbiamo impedirlo. Per questo sono stato assegnato a te.” La ragazza l’ascoltò in silenzio e alla fine annuì. “Si cibano dell’energia spirituale.” Esatto. E tu nella tua vita ne hai accomulata tanta.” Sorrise. “Ero una sacerdotessa…” L’uomo inspirò affondo. “Ancora peggio allora, sono le loro prede preferite. Sta lontana dai luoghi di confine, Kayla. Niente laghi, niente fiumi. Niente sentieri o buche. Sta in mezzo alla foresta, fra gli alberi, nei prati… la non arriveranno.” Si alzò in piedi, il volto tirato e pallido, la veste sporca del proprio sangue. “Fenlun… sei ferito! Posso far qualcosa? Non puoi andare in giro cosi!” L’uomo la guardò allungo e poi scosse il capo. “…No, Kayla…lasciami andare. La ferita guarirà da sola. Ma ti ringrazio.” Era parecchio strano il guardiano, come se adesso temesse la presenza della ragazza. Scomparve pochi istanti dopo, come aveva fatto la prima volta.
Kayla con il passare dei giorni riprese le forze ma sentiva che qualcosa in lei era cambiato. Non poteva vederlo perché non vi erano specchi in quel luogo.
Fenlun era scomparso, l’aveva chiamato più e più volte ma lui non aveva mai risposto.
Almeno fino alla sesta notte dall’aggressione. “Fenlun?” La ragazza lo guardò stupita e allo stesso tempo felice di vederlo. “Come stai? E’ tanto che ti cerco.” Fenlun l’osservò, il volto sfigurato in una smorfia di puro dolore. “Fenlun?” No, il guardiano la fissava ma non parlava, non diceva nulla, si inginocchiò di fronte a lei e le sfiorò la guancia con la mano. “Come temevo… sei cambiata.” “Cosa?” “Guarda il tuo volto, Kayla.” Tirò fuori il suo pugnale e glielo porse, la giovane si specchiò nella lama e per poco non urlò. I suoi capelli erano diventati bianchi, gli occhi grigi e i denti aguzzi. “Sei una creatura degli inferi ed è colpa mia.” La voce dell’uomo era densa d’amarezza, la giovane gettò via il pugnale e cercò di prendergli il volto fra le mani “Non è colpa tua, Fenlun, tu mi hai salvata! Sarei morta senza di te…” Fenlun la guardò negli occhi e lei si sentì come svuotata. “Devo andarmene.” “Perché?Rimani.” Scosse il capo. “Se solo oso rimanere… no, farei l’errore più grande della mia vita. Ti condannerei… ci condannerei.” “A cosa?” “Non senti nulla, Kayla? Non senti che qualcosa ci lega adesso? Che senza di me non puoi più esistere?” La ragazza lo guardò, non era riuscita a dar un nome alle sensazioni che aveva provato in quei giorni, ma ora… ora che Fenlun ne aveva parlato, lo sapeva. Provava amore per quell’essere. “I nostri cuori si sono fusi, siamo legati per sempre, Kayla… pensavo di poter resistere, ma non ne sono capace.” “Resta Fenlun, te ne prego. Non m’importa di nulla, resta.” Lei era umana, un anima umana e per quanto lui l’avesse cambiata la cociuttagine della sua razza era ancora in lei. E fu cosi che Fenlun le cedette. Il loro legame era troppo forte e ora lui era diventato troppo debole.
Quella notte si amarono, come un uomo e una donna. Si unirono e provarono una gioia e una completezza senza pari. Erano una cosa sola.
Ma i sogni non durano mai più di una notte e la realtà al mattino li reclamò.
“Fenlun, guardiano ti ordino di alzarti.” L’uomo aprì gli occhi e poco dopo anche lei li riaprì. Era di nuovo quella voce calda e meravigliosa che li aveva svegliati. “Mio… mio signore…” Il volto di Fenlun era cireneo ma nonostante ciò si mise a difesa di Kayla, spingendola dietro di se. “Mio signore… non punitela. E’ colpa mia, non ho seguito le regole.” L’uomo che risplendeva come il sole del mattino brandiva una spada e li guardava. Kayla si alzò in piedi e si mise fra loro. “No! Anche io ho sbagliato, dovete punire anche me.” L’essere la fissò con attenzione, spalancò gli occhi. “Non solo le hai dato il tuo cuore per tenerla in vita… ma in essa vi è anche la vita, Fenlun! Una femmina gravida!” I due si guardarono stupiti… com’era possibile… era successo una volta sola… quale tiro mancino il destino aveva giocato loro?
L’essere che troneggiava su di loro per la sua mole affondò la spada nel terreno. “Non posso uccidere una vita cosi pura. Ma ciò non vi salva dalla condanna che subirete. Avete infranto le regole… non vi è amore in questo luogo fra le creature e voi due non dovevate.” Mosse la mano destra e apparve uno specchio nero, ovale fatto d’ossa. “Fenlun… sei un essere immortale, non puoi morire. Le leggi sono queste e non le cambierò…ma dormirai ed espierai cosi il tuo peccato. Non vedrai il volto della tua creatura e non ci sarà più nessun mondo per te.” Una volta che l’essere ebbe terminato di parlare Fenlun cadde preda di un sonno improvviso, Kayla tentò di svegliarlo, ma non le rispondeva. “In quanto a te, mortale… sia maledetta la tua progenie e sia maledetta la tua anima. Vagherai per la terra per l’eternità, ti sarà proibito d’incarnarti e la tua unica compagna sarà la morte. Da oggi mi apparterrai per sempre e porterai a me le anime di coloro che il mondo hanno lasciato. Sarai custode di questo specchio se mancherai al tuo impegno o fuggirai lo specchio distruggerà il mondo. Tu e la tua progenie lo custodirete e veglierete sul passaggio.” Una forza sconosciuta e potente la scaraventò nello specchio portandola via da quel mondo di luce in cui era vissuta.
Da allora ella vaga per il mondo, urlando e piangendo i suoi morti, non vi è pace e non vi è tregua per lo spirito che ha sfidato la morte recando in se la vita.

NELL'ORA DELLA DECISIONE - ANGELO LA TORRE (52)

La menta trema
ma tu cuore ci sei?
rispondimi
piacere o felicità?
bagliore o luce?
orgasmo o vita?
il tuo grido pur sorge instancabile
aiutami
vorrei seguirti…

GENOVESI DI IERI E DI OGGI - STEFANIA RASCHILLA' (52)

Vivo a Genova da circa 16 anni. La città, la sua gente, il paesaggio ti conquistano a poco a poco, senza che tu te ne accorga.
Già il significato più probabile del nome, quello di “porta”, dal latino ianua, evoca l’idea del passaggio e del cambiamento (inteso sia in senso concreto che metaforico) e quindi il dio latino Giano, bifronte, volto nello stesso tempo verso il passato e verso il futuro, mitico fondatore della città. Se ne trovano infatti raffigurazioni in vari luoghi, in particolare nell’architrave destra della navata centrale della Cattedrale di San Lorenzo, sopra un’antica iscrizione che ricorda la fondazione di Genova da parte di Giano, re degli aborigeni, e in cima alla corona dello scudo civico; al suo nome è anche intitolato un molo situato a poca distanza dal Porto Antico.
In realtà la città (il primo insediamento urbano viene fatto risalire al VI sec. a.C.) fu fondata da una tribù, i Genuati, appartenente alla stirpe dei Liguri, popolo probabilmente proveniente dalla regione del Rodano (anche se le loro origini non sono certe e, secondo Catone, erano talmente ignoranti da non conoscere nemmeno il luogo da cui provenivano) e stanziatisi in Spagna, Francia e Italia Settentrionale. Ad essi si unirono elementi di altri popoli, prevalentemente etruschi, che trasformarono l’approdo naturale offerto dal luogo in un insediamento stabile, come testimonierebbero i ricchi corredi di bronzi e crateri etruschi rinvenuti tra il 1898 e il 1910 nella necropoli preromana situata nei dintorni di Via XX Settembre.
Per secoli, anzi, per millenni, i genovesi hanno convissuto con il mare e la sua presenza è diventata parte di loro, della loro vita, dell’arte e delle canzoni; per secoli e millenni il mare li ha nutriti, lo hanno navigato con coraggio stabilendo contatti e scambi commerciali e culturali con i popoli del mondo allora conosciuto. Ma sono sempre stati anche ben consci dei pericoli di una forza che l’uomo non riuscirà mai a dominare del tutto, tanto è vero che nel dialetto la stessa parola, “mâ”, esprime sia l’idea di “mare” che quella di “male”. Il legame dei genovesi – e dei liguri - con i loro monti, che si trovano a ridosso della lingua di terra pianeggiante bagnata dal mare, lungo la quale si sviluppa la città, è invece molto più antico e forte di quello con il mare, dato che – a quanto sembra - questi popoli scesero dalle montagne quando le acque marine si ritirarono completamente, in cerca di condizioni di clima e di vita migliori. Ma anche dopo che si avvicinarono alla costa, continuarono a stabilirsi sulle alture, anche se modeste, (nei cosiddetti “castellari”), dalle quali potevano controllare il mare e le vallate circostanti (il primo centro abitato di Genova pare fosse nell’attuale quartiere di Carignano), e a recarsi in pellegrinaggio sul Monte Bego (al confine con la Francia, alto 2873 metri), i cui circa quarantamila graffiti rupestri testimoniano una primitiva forma di religiosità. Essi ritraggono scene campestri, il lavoro della terra e gli animali necessari per il suo svolgimento e per il nutrimento (ovini e bovini); mai niente però che abbia a che fare con il mare.
L’indole di questa gente non è, quindi, quella tipica dei popoli che si affacciano sul mare; al contrario. Credo che nei genovesi di oggi sia possibile ritrovare molte caratteristiche già presenti nelle descrizioni che dei loro progenitori forniscono i contemporanei (anche se non va mai dimenticato il fatto che i vincitori, in questo caso i Romani, esasperavano i caratteri negativi dei nemici, soprattutto di quelli più agguerriti e difficili da sottomettere, e i Liguri erano tra questi; Livio scrive nelle Storie che essi usavano metodi simili alla guerriglia, vivendo nascosti e comparendo solo per tendere agguati, al punto che i Romani, per debellarli, deportarono in massa i Liguri Apuani nel Sannio. I genovesi costituirono un’eccezione, in quanto furono fedeli alleati dei Romani, cosa che durante la seconda guerra punica costò loro la distruzione della città - in seguito ricostruita con l’aiuto di Roma - ad opera di Magone, fratello di Annibale. Ancora oggi si usa l’espressione “avere il magone” per indicare sentimenti di paura, ansia, sofferenza). Lo storico Diodoro Siculo descrive questa gente – senza distinzione tra uomini e donne - come dotata di orgoglio e coraggio, irrobustita dal duro lavoro della terra, essenziale nei modi e nei costumi.
Inoltre i Liguri erano divisi in “clan”, separati (anche a causa della natura del suolo, che rendeva difficoltosi i contatti) e spesso in lite gli uni contro gli altri, salvo ad unirsi per far fronte contro un nemico comune; rispettosi degli altri e della loro libertà, insofferenti delle costrizioni e delle dominazioni esterne.
E i genovesi di oggi? Rivolti verso il mare, il nuovo, il futuro, ma nello stesso tempo saldamente ancorati alla terra, alle origini, alla tradizione. Contemplativi e concreti. Privi di fronzoli, tanto da dare l’impressione di essere rudi, o da essere tacciati di avarizia. Parchi di parole, non di sentimenti - anche se occorre parecchio tempo prima che “si concedano” - ; questi vanno però colti “tra le righe”, spesso non vengono manifestati per una specie di pudore, di naturale ritrosia. Prudenti, discreti, qualche volta fino all’eccesso. Individualisti, spiriti liberi. Legati al clan (leggi “famiglia”) e alla loro terra, gelosi dei loro affetti, rispettosi dei loro simili – sia uomini che donne (annotazione personale: mio marito è ligure. Una delle cose che mi colpì favorevolmente durante il fidanzamento è il senso profondo di rispetto e di pari considerazione nei confronti di noi donne in genere che ho colto sin dalle prime volte che venivo a trovarlo a Genova). Non troppo ottimisti (sempre mio marito, che una volta invitai a vedere il bicchiere “mezzo pieno”, mi rispose serio che lui non vedeva neanche il bicchiere), piuttosto inclini al “mugugno” (che, dicono loro stessi, “non costa niente”), una specie di cantilena lamentosa, a volte accompagnata da gesti e da un’eloquente mimica facciale. Ciò non significa però che siano privi di un loro particolare senso dell’umorismo, che paragonerei a quello degli scozzesi.
Sono molto diversi dai primi abitanti di queste terre?
A proposito poi della loro vena artistica (molti poeti e cantautori sono liguri o genovesi), sappiamo che già anticamente questo popolo era dotato di sensibilità, creatività e senso artistico, anche se espresso in forma primitiva (nel Fedro di Platone Socrate li definisce “stirpe armoniosa” e si diceva che durante le battaglie destinassero una parte dell’esercito al canto); nella necropoli ad incinerazione di Chiavari, risalente all’VIII – VII secolo a.C., sono state scoperte, tra il 1959 ed il 1970, oltre centoventi tombe contenenti monili e diversi oggetti in ferro, oro e bronzo.
Io credo che questa gente, da sempre stretta tra i monti e il mare ed abituata per antica cultura – come tutti o quasi i popoli settentrionali – a contenersi, a non mostrare le emozioni, ne abbia convogliato l’espressione nell’arte.
Genova, la sua gente, il suo paesaggio mi sono entrati dentro a poco a poco, senza che me ne accorgessi. Ho imparato giorno dopo giorno a voler loro bene; ma è certo che non glielo dirò mai.
Forse anche nelle mie vene scorre qualche goccia di sangue ligure?

INCONTRA L'ORIZZONTE - DAMIANO MACCARONE (25)

Poeta senza parole,
mano che non perdona,
come una fremente pagina bianca
che aspetta d'esser scritta
da chissà quante pensate parole,
o ritmici sentimenti istintivi
che scalpitano inebriati
in una sera sotto la luna,
al chiarore dei tuoi occhi.
Mistero intrigante,
prevedibilmente atteso,
in mezzo a questo cielo,
lo stesso cielo
pesante e impercettibile,
abbandonato in una nuvola,
come un'anima
distesa nel mio petto,
mentre osservo l'ignoto,
lontano,
e così incredibilmente vicino,
che mi si avvicina in un rapido roteare,
seppur denso di paure,
sicuro della propria insicurezza.
Adesso scrivi,
lotta e non fermarti,
senza nasconderti in un mentito sorriso,
incontra l'orizzonte...
puoi fare a meno di te,
ma non di quello sguardo.

LE CICALE - FABIO GAGLIANDI (22)


Cicale il loro sacrificale

il maniacale canto zodiacale

con tono patriarcale riempie le

stanze;domenicale,radicale.

Disarticolato grammaticale

trema sotto le scale maniacale,

monacale e anticlericale

musicale,verticale,vocale.

IL PENSIERO DI TE - LUDUVICA MAZZUCCATO (32)

Con gli occhi bassi,
ali di farfalla
ebbra
del fiore su cui si è posata.


Senza fare rumore,
come una foresta
che cresce.

Con la bocca socchiusa,
conchiglia rosa
che custodisce
la sua perla.

In contemplazione,
come l’airone
sul Delta che arrossisce
alle avance della sera.

Così coltivo il pensiero di te
e appendo il tempo
al filo dell’orizzonte
come una foto
che deve ancora asciugare
prima di svelare,
pudica,
il suo ricordo.

IL PARADISO PUO' ATTENDERE - FABIANA ANDREOZZI (30)

Si stringe infreddolita nel cappotto, sollevando il bavero fin sotto il mento. Non le piace far tardi la notte ed essere costretta a camminare da sola fino a casa. Lachlein non ha scelta. Purtroppo non ha mai avuto possibilità di decidere il meglio per se stessa. Se cammina di notte, nel buio di quelle intricate vie, è solo perché vi è costretta. L’unico straccio di lavoro che ha trovato è in quello stantio pub di passaggio lungo la statale. L’unico lavoro che le permette di restare a galla e pagarsi l’affitto di quel tugurio che fatica a stento a chiamare casa. Ma per una come lei che non ne hai mai avuta una sembra una reggia, un posto caldo e accogliente a cui far ritorno. È stufa marcia della gente che le ronza intorno, tipi insistenti, dalle mani lunghe che restano impigliate nella scollatura del suo vestito senza neanche rendersi conto se è una tipa carina. Ubriachi, drogati, smidollati, gente reietta senza speranze, sembra che in quell’angolo di mondo si sia riunito tutto il ciarpame e la spazzatura umana. Lei sogna ancora che un giorno potrà elevarsi da tutto ciò. Non costa nulla sognare che un giorno da quella porta entri finalmente un ragazzo decente, uno che non abbia il fiato che puzzi di birra e il cervello vuoto… ma sono speranze. Lachlein trema e allunga il passo. Sì, fa freddo di notte, ma è la paura che le scorre lungo la schiena come un brivido a farla fremere. Si guarda intorno spaesata, ma quegli occhi intravisti al pub stasera non le sono per nulla piaciuti. Un sorriso sghembo, divertito dietro due occhi neri di pece privi di sfumature, di una bellezza incredibile ma di una freddezza terrificante. Infila la chiave nella toppa provando un misto di contentezza e soddisfazione. Anche stavolta ce l’ha fatta. La porta si spalanca nel buio della sua casa e in mezzo a quelle ombre scure di colpo intravede due occhi simili a lame sottili. Caccia un urlo, mentre la chiave le sfugge di mano insieme alla borsa. Le gambe molli minacciano di franare a terra, ma ha solo voglia di correre via. Gli stessi occhi, gli stessi inquietanti occhi. È un attimo, deve andare via. Si gira, ma una mano da dietro si chiude intorno alla sua. Biondi capelli quasi simili a fili d’argento svolazzano intorno sospinti dal vento. Rilucono nel buio come fari nella notte. Un sospiro quasi di pace si dipinge su quelle sconosciute labbra. Non le resta che chiedere aiuto e senza pensarci sprofonda in quelle braccia che sembrano invitarla e accoglierla. Il buio pare incupirsi, le poche luci che brillavano incerte sino a pochi istanti, ora si spengono di colpo. Un aria gelida sale dalla rampa di scale in fondo al corridoio. Vorrebbe scappare, ma questo alito di vento glaciale la paralizza. Vorrebbe stringersi il cappotto ma invece si aggrappa al corpo di questo ragazzo di cui non sa nulla. Si volta a scrutare l’appartamento mentre gli occhi oscuri si avvicinano privi d’incertezza. Nubi, abisso si scontrano come un temporale in quello sguardo e Lachlein trema. Si scosta cercando di allontanarsi da quella figura, ma il ragazzo biondo non le lascia scampo, la sua morsa sul braccio ora diviene di ferro. Non le piace tutta questa situazione ma sa bene che urlare non servirebbe a nulla, tutti chiusi nei loro appartamenti non uscirebbero neanche se sentissero un colpo di pistola. Se ne stanno serrati nelle loro vite, nella loro indifferenza. Si divincola con rabbia, vuole solo scappare. “La prego!”, sussurra disperata. La voce le trema e il respiro diviene affrettato, affannoso. Ora anche questo giovane le incute terrore, nonostante l’aspetto, nonostante quelle azzurre pozze non riesce a non tremare. Sarà la mano che le stringe il braccio, la prepotenza con cui la tiene lì al suo fianco.
“Cosa vuoi fare?”, gli oscuri occhi continuano ad incedere.
“Tu cosa vuoi fare!”.
Lachlein si guarda con sgomento intorno. Parlano tra di loro non curandosi di lei, come fosse trasparente e invisibile, eppure hanno profanato la tranquillità della sua casa. L’uomo biondo la spinge nell’ingresso e non può opporsi. La porta alle sue spalle si richiude come per magia in un tonfo sinistro. “Sono stato io a chiederlo”, risponde bruscamente.
“A quanto pare sei arrivato in ritardo!”, sghignazza mentre senza scomporsi la trattiene tremante al suo fianco. “Immagino che il tuo fascino, stavolta abbia fatto cilecca!”
L’altro non ride alle battute e in un attimo gli arriva sotto al naso afferrandolo per il bavero della costosa camicia. Lo tira su di qualche centimetro, sospeso nel vuoto, mentre Lanchlein cade a terra come una bambola di pezza priva di vita. Spaventata e senza forze striscia sul pavimento per allontanarsi da quei due. Vorrebbe alzarsi, scappare a rotta di collo giù per le scale ma le gambe non rispondono. Gli occhi sono spalancati e terrorizzati. Chi sono quei due? Neppure l’ha visto muovere nello spazio… e un secondo e tutti e due bloccano la porta, come se fossero legati dai pensieri. “Togliti di mezzo!”.
Questa volta è solo l’aria a muoversi, un bicchiere si disintegra a terra, il vetro di un quadro si frantuma in mille pezzi, le sedie intorno al misero tavolo si rovesciano. Non riesce a capire, afferra la maniglia della porta e la apre lentamente eppure questa si richiude in un tonfo sordo. Un coltello viene lanciato attraverso la stanza e si conficca contro il muro. Finalmente riesce a vederli. “Non è un gioco, non puoi pensarla davvero così!”, il moro dagli occhi scuri osserva il suo avversario con sguardo truce. “Non l’ho mai pensato!”, è la risposta secca dell’altro. Una luce abbagliante sfreccia nella stanza, è una sottile lama affilata, non ha tempo di pensare, uno spostamento e poi un dolore lancinante al braccio. Si accascia a terra terrorizzata mentre sente un fluido caldo scorrere velocemente verso la sua mano. Sfrega le dita e sente la consistenza del sangue, l’appiccicume e un brivido freddo le attraversa la spina dorsale. “Guarda un po’ cosa hai fatto, sei proprio un piccolo diavoletto!”, gli occhi cielo pieni di sarcasmo si piantano contro quelli oscuri. “Certe cose non dovresti farle, altrimenti che gusto c’è?”.
“È ancora viva solo questo conta!”, replica l’altro lanciando uno sguardo verso la giovane donna accasciata, dovrebbe avvicinarsi e soccorrerla. La sente la paura che le vibra nell’anima, il sangue che scivola via, ma è solo spaventata e lui non ha tempo di prestarle le cure. Non ora, non in presenza di lui. “Non insultarmi, sei solo una lurida ombra della notte, un servitore del demonio”. L’altro ride scompostamente, sistemandosi la bionda chioma. “Se cerchi di impressionarmi con le parole hai sbagliato strada!”. Si muove nella stanza con passo felino, mentre quegli occhi chiari si assottigliano per mettere a fuoco la sua preda. Sono occhi che non sfuggono a Lachelein. Rabbrividisce piena di paura. Non capisce, non può capire. Non afferra le parole, il senso di tutti quei gesti, quella magia, che davvero non può esistere. È un incubo, il peggiore che fa da quando è venuta al mondo ed è rimasta sola. Ma quest’incubo sembra così reale nella sua irrealtà… sembra così vivo, così come il dolore che le pulsa sul braccio ritmicamente. Chiude gli occhi stanca, non vuole vedere, non vuole morire. La vita fa schifo, se lo dice tutti i giorni, ma non è mai stata seria quando diceva che avrebbe voluto farla finita! “Angioletto dei mie stivali, non sei neanche capace di prendere bene la mira! Ci credo che il tuo padrone ti ha inchiodato qui, non sapeva che farci con uno come te!”.
“Chiudi il becco demonio che non sei altro, tutte le altre anime non ti sono bastate? Evindor anche lei ti sei portato via!”, sbotta il giovane moro mentre la rabbia lo pervade e nonostante non sia il suo elemento ora la sente chiara e pulsante, la voglia di uccidere diviene insistente. Il solo pronunciare il nome di Evindor lo ha mandato in crisi. Un angelo, un angelo corrotto, un angelo costretto a vendersi per salvare l’anima di un umano per portare a termine il suo compito ma nonostante ciò non ce l’ha fatta. “La piccola Evindor, con lei me la sono spassata un sacco, ricordo ancora le sue lacrime angeliche!”. Due enormi ali bianche sbucano dietro le spalle dell’angelo mentre i suo occhi ora paiono braci ardenti. Il suo nemico risponde con nere ali di pipistrello. Ora i colpi divengono insistenti, i mobili si disintegrano colpiti dal nulla. Lachelein striscia lentamente il più lontano possibile, un rumore assordante e si copre il volto con un braccio mentre i vetri della finestra volano come schegge diaboliche nella stanza. La colpiscono sul braccio provocandole stilettate di dolore. Lo sente, questa sera morirà, sente le forze lasciarla, sente il sangue riversarsi troppo velocemente dalla ferita. Scivola fuori sul balconcino sino a lasciarsi cadere a terra priva di forze in mezzo a quei frantumi di vetro. La vista annebbiata eppure le pare quasi di vederli muovere, di riuscire a percepirli con maggior percezione ora che si trova riversata sul pavimento in una piccola pozza di sangue. “La senti la tua piccola, ci sta lasciando lentamente, come Evindor!”.
Non può sentire pronunciare quel nome. Se non avesse perso quella piccola anima ora sarebbe già nel posto che gli spetta da secoli ormai. Per colpa di quel demonio e di quella piccola sciocca umana che si è lasciata sedurre ora sono pari. Non può permettergli di vincere e di restare qui sulla terra per altro tempo. È stufo di questi umani, semplici marionette manovrabili a loro piacimento. Stanco delle loro paure, delle loro preghiere. Lancia uno sguardo a Lanchelein che ormai è riversa in quel unico colore porpora. Sente chiaramente la vita che sgocciola via in ogni lacrima di sangue versato. Le basterebbe toccarla per risanare quelle ferite, ma lei lo guarda con quegli occhi azzurri ricolmi di paura, angoscia, quegli occhi chiari che somigliano troppo a quelli di Evindor. Lo tiene lontano solo con la potenza di uno sguardo. Non sa riconoscerlo per quello che è, il suo unico e probabile salvatore.
Lachelein si solleva tremante sulle gambe, appoggia la schiena fredda sulla ringhiera di ferro arrugginito e sconnesso. Ha paura di quei due e li guarda con la feroce determinazione di chi non vuole soccombere. Piuttosto che morire per loro mano preferisce scegliere il vuoto. Ma non ha tempo di scegliere fino in fondo coerentemente quale sarà il suo destino. È quella ringhiera di ferro a decidere per lei, scardinandosi con un ruggito feroce dalle travi di legno marcite sotto le intemperie. È finita, Lachelein si libra nel vuoto con un sorriso sul viso e gli occhi spalancati. Non grida di paura. Sa che nella vita non ha fatto nulla di male e il paradiso è il luogo dove trascorrerà una nuova e serena vita. L’angelo grida al posto suo e, ritrovato il modo di muoversi da quella paralisi, slancia una mano avanti per afferrare quella di lei, mentre l’altro se la sghignazza compiaciuto. La vittoria è in pugno, già vede le porte dell’inferno aprirsi. L’angelo si getta nel vuoto seguito dal suo nemico quando il corpo di Lanchelein si libra nel vuoto sospinto da una brezza leggera che si è alzata all’improvviso e di colpo il demone smette di sorridere. Una situazione così non l’ha mai vista: un corpo in caduta libera che fluttua nel vuoto e lentamente risale irradiato da una tenue luce sottile. Anche l’Angelo si guarda sorpreso intorno e tira un sospiro di sollievo, lui non sta facendo nulla per salvarla, eppure Lachelein non è più un’anima persa. All’improvviso il peso e l’ombra delle ali dietro le loro spalle sfuma via. Si scambiano uno sguardo denso di significato e poi impotenti chiudono gli occhi sotto il peso di quel cielo nero. La consapevolezza delle loro colpe, del loro giocar sporco, della ricerca di vendetta ora pare opprimerli. Il demone ride, un riso isterico mentre il suo compagno di volo resta immobile ad attendere l’impatto e con esso la fine eterna. Hanno fallito entrambi così miseramente da non meritare redenzione, non adesso quanto meno. Il volto pallido e sorridente di una donna prende forma nel nulla. Il suo sorriso squarcia il buio di quella caduta infinita. Anche il demone smette di ridere, fissa i suoi oscuri occhi in quelli blu oceano di lei, il fiato gli si mozza nello stomaco, quel sorriso, quelle labbra… e poi… un solo sussurro: “Evindor, perdonaci!”.
Lei sorride dolcemente come una bimba davanti al suo balocco preferito, stende le braccia in quell’abisso fino ad inondarli con una chiara luce. Li avvolge teneramente cullandoli verso il terreno. L’angelo rabbrividisce mentre gli occhi appesantiti si chiudono in un sonno eterno. Ha vagato per secoli con il solo scopo di tornare al suo cielo senza capire realmente il senso della sua missione sulla terra. Non conta quando e come tornerà, ma a quante anime donerà una vita, un senso, uno scopo. Quante Evindor, quante Lanchelein incontrerà sulla sua strada? A quante restituirà la voglia di vivere e di sperare? È questa la missione vera che non ha mai intrapreso. Il paradiso può attendere, finalmente l’ha capito.

VIAGGIO IN DUE - VANESSA VESCERE (23)

Sarebbe il caso di dirlo ora, mi chiamo Veruska e sono di origini russe. Mia madre si chiama Tatiana ed è alta e bionda. Naaaa! Mia madre non potrebbe essere più lontana dall’essere russa, e più lontana di così dall’essere bionda e alta… è così tonda che si fa prima a saltarle in testa che girarle in tondo. Di russo a casa mia c’è solo mi madre innamorata di Puskin e Tolstoy. Seppur non siamo russi, purtroppo non siamo nemmeno romani, quelli DOC da sette generazioni. Mia madre è di Roma, mia nonna è di Roma, ma mio nonno è di Reggio Calabria; la mia bisnonna è di Sessa Aurunca e il mio bisnonno di Milano. Dalla parte di mio padre la storia si fa incerta e nebulosa, ci vorrebbe un manipolo di scienziati a far luce, è peggio del mistero sulla creazione… comunque mio nonno è di Roma, prima di lui c’è un ?. Mia nonna è della Ciociaria, ma se la vedete somiglia ad una delle SS… i suoi parenti? Sono equamente distribuiti tra i campi del Lazio e qualche altra parte del mondo in cui sono immigrati in cerca di fortuna. Dovrei cercarla anche io, se non voglio morire zitella, acida e povera in canna. Ma resto aggrappata alle mie radici come il melo del mio giardino. Ho paura di appassire. Comunque sono proprio un bel miscuglio, ci manca poco e copro tutte le regioni. Da nord a sud passando per il centro, anche se ogni Santo giorno ringrazio Dio per avermi fatto nascere a Roma. Roma Caput mundi, un tempo; oggi più Roma ladrona, ma sempre di Roma si tratta. Sono fiera di essere romana perché vengo su da un popolo che ha conquistato il mondo allora conosciuto. Sono loro che hanno fatto la differenza, certo con i secoli si sono un po’ infiacchiti e ora non siamo dominanti neppure quando gioca la magica…(e quella beh, può anche perdere, tanto se sei un vero tifoso, la ami e basta senza discutere) Ma dico io perché mi sono infilata in questa maledetta storia? Acciuffo la valigia che pesa più di un macigno e arranco verso la porta. Non sto abbandonando Roma, questo mai! Sto partendo alla volta di Londra, un viaggio in un paese ostile. Ovvio, ostile per me e per i miei limiti linguistici! Dovevo nascere al tempo di Giulio Cesare quando la lingua diffusa era il latino! Perché diamine ora l’inglese deve far da sovrano ovunque? Ma l’Esperanto che caspita di fine ha fatto? Basta puntualizzare, mi trascino arrancando in ascensore. L’inglese dovrò impararlo, tornerò vittoriosa e tutto per aggiornare questo maledetto cv europeo!Guarda che tocca fare per riuscire a trovare un lavoro alla veneranda età degli ‘enta’ ormai raggiunti… Ormai non capisco più se è più difficile beccare un uomo serio e affidabile o il lavoro per la vita!
In silenzio mistico osservo le valigie rosa confetto, comprate appena da una settimana. Anche quelle maculate rosa erano carine però, perché ho scelto queste? Ma certo è vero, c’era il moro dagli occhi azzurri che mi ha rifilato la storia che se non vedeva almeno un set del nuovo modello, rosa shocking con rotelle piroettanti, allora lo licenziavano. Non che mi interessasse qualcosa del suo lavoro, ma non so, speravo ci fosse l’opportunità di avvalersi del trasporto, nonché del bel moro per condurre le preziosissime valigie da 865.30 € a destinazione, sane e salve. Beh okay diciamolo pure, speravo di portarmi nella valigia il moro occhi cielo, anche perché dopo una cifra del genere per un set di 4 valigie il premio di acquirente dell’anno ci stava tutto. Che poi non sono state tanto le 865 € a disturbarmi quanto i trenta centesimi. Su via neanche lo sconto? Certo se ero con la mia adorata madre sicuramente cercava di farsi togliere non solo i trenta centesimi ma anche i restanti 800 per la modica somma di 65 €. È ormai risaputo che le mamme del sud Italia nella compravendita sono le numero uno. Sicuramente con lei al mio fianco, beh manco ci entravo nel negozio, primo perché avrei fatto una figura pessima e secondo perché non mi avrebbe permesso di flirtare col moro. Che situazione, non riesce proprio a mandarla giù la storia del XXI secolo, dei cambiamenti e dell’essere persone dalle ampie vedute. Mia madre è la classica donna casa e chiesa, senza peccato che non va in spiaggia senza il suo costume anni 60 e con la scorta armata, come se alla sua venerande età qualcuno se la fila poi. Non che sia brutta ma insomma oltre a mio padre che la sopporta da 35 anni non riesco a immaginare nessun altro che possa incorrere in tal disgrazia volontariamente. Bando alle ciance ho un volo che mi attende non voglio rischiare di perderlo. Ormai sono a Roma da tre settimane e da tal tempo devio le chiamate di madre a mia sorella Sophia perché se solo viene a conoscenza che sono in Italia e non sono andato a trovarla mi lincia. Non che non volessi farlo ma… okay è troppo lungo da spiegare, lasciamo stare. Afferro le mie valigie, la cui reale missione ormai da tempo è stata persa, e mi imbuco nell’ascensore. Esplodo praticamente fuori tra le due porte scorrevoli che si aprono mentre il portinaio mi guarda perplesso. Gli faccio l’occhiolino ma so già che con questo burbero ottocentesco nulla funziona, mi lascia barcollare sin fuori da questo dannato edificio senza neanche chiamarmi un taxi. Beh potrebbe anche farlo visto che si libera finalmente di un peso. I miei occhiali da sole rosa strassati, o come direbbe mia madre stressati, si illuminano colpiti… non dalla luce del sole, ma dal bel colore vivace del Taxi che se ne sta immobile ad attendere. Osservo lui e poi, lei, malefica donna con una sgraziata valigia azzurro cielo che stona con tutto il mio bel rosa. Zampetto trainandomi la mia carovana verso l’unico mezzo di salvezza e lei? Lei fa lo stesso…
Ho sempre sognato di fermare un taxi alla Carrie Bradshaw di Sex and City, ma ho dovuto sempre accontentarmi di un posto da sardina in uno scardinato bus dell’Atac, e Dio è emozionante come un orgasmo, non si sa mai se si riesce a salire e se si scenderà indenni. Ma stavolta ho fatto le cose in grande per la mia partenza… va beh lo ammetto sono in ritardo stratosferico e mi tocca prendere il taxi altrimenti il volo per Londra diventa un miraggio. Mi slancio in avanti strattonando la valigia. È una piroetta classica degna di una leggiadra ballerina di fila quella che mi sono appena apprestata a fare mentre sbraccio una mano e urlo al conducente di fermarsi. Stride con una frenata pazzesca e diamine, ce l’ho fatta! Mi sento veramente Carrie! Mi precipito dentro quando mi sento sballottata di lato da un demente con un strano paio di occhiali strassati… e rosa?! Lo fisso allucinata ma non abbastanza imbambolata da permettergli di fregarmi il posto. “Si metta in fila, per la misera! Le sembra questo il modo di comportarsi? Non lo vede che ci sono prima io?”. Il tipo assurdo mi fissa, ma continua a spingere dentro la sua costosa e pesante valigia. Gliel’afferro di lato e cerco di rimetterla a terra. “No, mi sa che non mi sono spiegata, questo taxi è MIO!”. Guardo il conducente inviperita come poche volte lo sono: “Glielo dica anche lei che sono stata io a fermarlo per prima?!”. E la mia voce si alza di qualche decibel di troppo.
Sono troppo preso dal far entrare la costosa valigia rosa nel Taxi per preoccuparmi della voce inviperita, anche perché a questi toni ci sono abituato e basta semplicemente ignorare il persistente ronzio, anche se in questo caso è difficile farlo. Nel senso una zanzara è fastidiosa ma non riesce a spostarti una valigia dal peso a dir poco colossale. “Suo? C’è scritto forse celestina sulla carrozzeria? Non mi pare per cui!”, con uno spintone faccio entrare la prima valigia mentre lotto per infilarmi all’interno. Se questa non la smette le strappo tutti e quattro i peli che si ritrova in testa.
“Ah no guardi omuncolo rosa, non ci siamo intesi!”, riprendo sempre più scioccata notando la sua sfacciataggine. “Questo taxi è MIO!”, non ci penso due volte ad afferrarlo per la camicia assurdamente rosa e tirarlo giù di peso, mentre lui oppone una strenue resistenza. Non mi resta altro da fare se non prenderlo a borsettate in testa, mentre l’ignavo tassista non muove un dito per difendermi da questo malintenzionato in rosa. “Mi state facendo perdere i soldi!”, grida all’improvviso. “Il tempo è denaro! Dove caspita siete diretti?”
“All’aeroporto di Ciampino!”, diciamo all’unisono e sotto lo sguardo inacidito dell’autista ci apprestiamo a salire moggi moggi senza proteste.
Mi aggiusto la camicia. “Un Versace, cosa credi mi vesto al mercatino delle pulci come te?”, le sussurro indispettito senza farmi sentire dall’autista che bestemmia a tutto andare contro il traffico. Sgomma fuori dall’aeroporto e urla indispettito: “Sparite da qui, pazzi che non siete altro!”. Non me lo faccio ripetere, trascino fuori le mie valigie senza neanche pagare, cavolo il Taxi è di questa qui perché lo devo pagare io? Corro con Celestina alle calcagna. Mi segue! Deve essere un incubo, il più brutto di tutta la mia vita tra l’altro.
Stronzo e pure tirchio, penso mentre corro sulla rampa del veivolo. Un’occhiata veloce al biglietto e mi precipito al mio posto. E chi ci trovo? L’uomo in rosa! “La sua strada s’incrocia un po’ troppo con la mia oggi! Quel posto è MIO!”, scandisco quel mio con troppa enfasi, tanto che sopraggiunge alle mie spalle un hostess.
“MIO? Ma non è che hai la sindrome del possesso! Cos’è sei la proprietaria di una multinazionale che ti puoi permettere il Taxi e adesso anche l’aereo?”. Sbuffo decisamente contrariato. L’hostess mi squadra con curiosità, passa da me a lei. “Biglietti prego!”. Lo cerco nella borsettina da cintura seccato e glielo porgo. Celestina fa lo stesso e…
“Signori ci deve essere un errore, voi non siete in prima classe, ma in seconda!”.
Sbarro gli occhi, com’è possibile? Io non viaggio mai in seconda classe cosa ha combinato la mia azienda. “Vi prego di seguirmi!”. Ancora una volta accomunati dalla stessa sorte ci avviamo in seconda classe e… ecco lì i nostri due posti che brillano di luce, seduto come un divo di Hollywood un pezzo di uomo dai lineamenti scultorei. Mi affretto per prendere posto al suo fianco ma… non è possibile è come avere una palla da carcerato al piede. Celestina si fionda e si lascia letteralmente svenire senza contegno a fianco al bel moro. “No, forse non ci siamo intesi quello è il mio posto, questa volta ne sono sicuro!”, sbuffo, mi avrà attaccato la sindrome del mio, ma sento che il destino ha scelto per me ne sono certo.
Nooooo, non ci penso proprio a lasciargli il posto, non quando da quel volo può dipendere la fine della mia vita da single! Ignoro totalmente quella voce fastidiosa per sorridere al mio aitante vicino. “Mi scusi sono inciampata… sa com’è volare mi mette sempre ansia.”
L’uomo dal sorriso perfetto mi guarda con due occhi che farebbero sciogliere persino l’Everest. “Non si preoccupi, non le succederà nulla. Neanche si accorgerà di volare!”
Sto quasi per chiedergli non è che può “stringermi la mano”, quando…
“Mi scusi…!”, tossicchia l’hostess, “i vostri posti sono lì in fondo. Con malcelato trionfo osservo i due posti in fondo all’aereo, sono due uno di fianco all’altro e mi fiondo per occupare quello vicino al finestrino. “Questo è MIO!”, affermo. Mi volto e guardo fuori dall’oblò.
Sorrido mesta al superfigone. Non è destino! Mi trascino delusa accanto a quell’idiota patentato che fa da pendant alla mia giornata e alla mia iella abissale! Cosa ci può essere di più sfigato di essere senza uomo, senza lavoro, in partenza per un paese ostile? Essere seduti accanto ad un GAY!Ma non sono piena di pregiudizi. “Mi sa che è il caso di presentarci… piacere, Veruska”, e gli allungo una mano. Io e quel tipo abbiamo troppe cose in comune.
“No Celestina…?”, tossicchio, poi… “Piacere Silvio!”, e le sorrido chissà che il viaggio non passi più in fretta e poi con lei a fianco il mio sex-appeal risalta.

INCANTO - LIDONNICI ANTONIO (26)

Quella sera non toccai il tuo corpo,
ma sfiorai la tua anima.


Non erano sinuose curve di un corpo terreno,
ma linee di inaudita perfezione
che solo l’etereo può possedere.

Non labbra mortali ma labbra di morte,
perché quella sera è morta la mia solitudine,
soffocata allo spasmo da ossigeno puro.

Non semplici baci ma comete,
doni dal cielo perfetto del tuo corpo.

Non ho bisogno di vederti per guardarti
Sei impressa in me come pellicola,
uno spettacolo timido e sensuale
che ancora non sa di essere vivo.

In cuor tuo, in un unico momento,
sei innocente e nobilissima,
perduta nel turbine felice dei tuoi sogni.

In ogni istante sei donna e bambina,
in ogni gesto malizia sapiente e ingenua innocenza.

Tutto questo
Ed immensi altri incanti
Si riflettono nell’immagine che di te possiedo.

Pur stanco l’istinto
Mi ha portato a cercarti,
per adagiarmi, come un petalo senza fiore,
sui ricamati flutti di te.

Le tue perle, i tuoi coralli,
preludono alla tua preziosità.

LE CONCIGLIE SONO LE CASE DEI MOLLUSCHI - MARA NISTRI (57)

Santino guardò sua madre camminare lungo la spiaggia, in lontananza, dove mare e cielo sfumavano in un unico colore. Camminava con passo stanco la donna e solo in quel momento il ragazzo si accorse del trascorrere del tempo, almeno una decina di anni erano volati via dall’ultima volta che si erano recati lì, al Castello dei Baroni, sul mare. Parlando con lei, gli era sembrato che il tempo non fosse passato e che si fossero incontrati in quel luogo il giorno prima. Ora lei stava allontanandosi verso la folla del villaggio turistico e Santino con la testa tra i ricordi si incantò ad osservarla mentre si mescolava ai bagnanti:
Santino – aveva detto sua madre – al Villaggio Turistico i giovani del paese possono trovare lavoro, i disoccupati sono tanti, lo sai. Il centro balneare ha portato un po’ di benessere anche per noi, che viviamo qui da sempre. –
E’ vero che trovano un impiego, però lavorano per poche lire. –
E’ dura qui Santino, dove possono trovare un lavoro ben remunerato? –
Ma è un lavoro precario, finita la stagione restano di nuovo a casa, il guadagno estivo non copre il periodo invernale e poi molti lavorano senza essere assicurati e non avranno mai una pensione, una rendita per la loro vecchiaia. –
Però, prima che costruissero il villaggio era più difficile la vita qui …….-
Non ne valeva la pena di concedere la spiaggia più bella, il paese non guadagna niente, è solo la società proprietaria del villaggio che trae vantaggi. Da quando sono state posizionate le recinzioni non esiste un decente accesso al mare per gli abitanti del luogo. -
Osservò ancora sua madre che camminava tra i bagnanti, quando non riuscì più a distinguere la sua figura, entrò in acqua. Si immerse completamente, nuotò in apnea e quando emerse si trovò sopra una secca. Camminò, l’acqua era sempre più bassa, si soffermò e guardò indietro, vedeva la riva lontana, continuò a muoversi. Sovrastava la distesa marina quasi deserta, alle sue spalle l'orizzonte appariva punteggiato da vele bianche e piccole imbarcazioni. Si tuffò di nuovo e quando il livello dell’acqua fu più alto, nuotò con forza verso il mare profondo cercando pesci celesti e meduse trasparenti come quando era bambino. Ricordò che la pineta sulle dune era libera per l’accesso e alla spiaggia, allora, c’erano soltanto gli abitanti del paese.
Emerse, e si trovò di fronte al Castello dei Baroni, adesso era abitato nella stagione estiva ed anche quella proprietà era stata recintata. Dal paese, il percorso che si snodava dalla strada carrabile principale, fino alla pineta e quindi al mare era delimitato da due recinzioni, quella della proprietà del Castello e l'altra della concessione data al Villaggio Turistico, si snodava tra dune alte, salite e discese, pini scarni dalle radici scoperte. Sua madre lo aveva percorso con fatica. Ansava quando sulla sabbia si era seduta sopra una duna che dominava il mare all’ombra di un pino piegato dal vento.
Nuotò per qualche minuto verso quel luogo turistico, sua madre era ferma sulla battigia, stava tornando indietro. Si abbassava per guardare nell’acqua ai suoi piedi. Osservava lontano nel mare.
Uscì, si scrollò, si distese sulla sabbia umida e restò assopito assaporando il calore del sole:
- Ciao! – un uomo alto lo guardava con qualche orologio fra le mani.
Non ho necessità di un orologio. – disse sollevando il busto per sedersi. L’uomo si accovacciò per mostrare la mercanzia senza far uscire una parola.
Orologi ne ho. – volle asserire mentre incrociava le gambe per alzarsi, ma poi si fermò perché l’uomo si stava mettendo seduto sulla sabbia. – Gli orologi sono belli ma adesso non voglio comprarne uno. – continuò Santino.
Sai, io sono in ferie. –
Lo fai come secondo lavoro? –
Ho un mese di ferie, lavoro in una conceria, l’anno passato sono stato a Parigi, avevo una fidanzata. – si giustificò – ma adesso sono solo e non è piacevole fare un viaggio senza una compagna, non credi? –
E’ vero, però a chi piace viaggiare lo fa anche da solo. –
Io preferisco in compagnia, adesso però non ho una fidanzata per cui sono venuto qui – si giustificò di nuovo, poi si azzardò a chiedere: – tu non hai una compagna? ti vedo qui solo. –
Non del tutto. –
Allora non sai decidere per una donna o tra due donne o tra molte donne oppure ti piace stare solo? –
Timore di una scelta o di un legame? Può essere vero. –
Ti dirò, non stiamo bene con una sola donna, sono necessarie più donne…-
Da quale Nazione provieni? –
Vengo dal Continente Africano. –
Qui forse è diverso, per religione….- fu subito interrotto.
No, è normale, non è per religione, non è solo per gli uomini, anche per le donne sono necessari più uomini per stare bene, non è per religione. –
Così è facile, allora non dobbiamo scegliere, ma vivere diversi amori. –
Certamente. – Si alzò – Ci vediamo domani. – disse il lavoratore extracomunitario e se ne andò per la battigia.
Santino restò a guardare il mare. Nuvole di pensieri si addensarono l’una sull’altra, troppe. Si distese di nuovo e si addormentò sotto il sole per poche decine di minuti. Quando si svegliò si voltò verso la pineta con l’intenzione di alzarsi per ripararsi all’ombra, vide così sua madre che era ritornata e di nuovo si era seduta sotto il pino sopra la duna. Si avvicinò per stare accanto a lei.
Sei stanca? –
No Santino. – aveva alcune conchiglie sul palmo di una mano – mi piace raccoglierle – continuò indicandole al figlio – sono la dimora dei molluschi che vi hanno abitato. Loro nascono con la casa, non devono faticare per costruirsela. –
Restarono seduti all’ombra, fino al calare del sole.
Forse è ora di andare – disse Santino subito dopo il tramonto – la strada è lunga. -
E’ molto tempo che desidero farti una domanda. – indugiò, poi si decise – quando finirai i tuoi studi, tornerai qui al tuo paese? – Santino non rispose – Rosaria ti aspetta, lo sai – non rispose neppure allora. Si alzo e si incamminò verso il percorso di ritorno.

AMORE ANONIMO - VALENTINA CARRUBBA (22)

Squillava quel telefono...Due, tre, quattro squilli; il bip finale e poi il vuoto...Il vuoto; ma in fondo c'era sempre stato ed era sempre stato vuoto, mai altro...Le tendine di quella stanzetta erano chiuse, serrate. Non lasciavano trasparire altro che l'immaginazione. Lei si chiedeva cosa avrebbe mai potuto immaginare dopo quello che le era successo: forse che il limite dell'immaginazione non l'avesse già valicato? Forse si; anzi sicuramente. Ascoltando le voci che provenivano dalla strada sottostante quel covo di struggenti emozioni qual'era appunto la sua camera da letto; Cloè non riusciva a percepire altro che un ammasso di suoni. Non distingueva coloro che parlavano, dal suono dei clacson; non c'era differenza tra il rumore dell'arrivo del tram e l'abbaiare dei cani randagi di strada...no; era tutto fottutamente identico. Cloè era lì, nuovamente insieme a quel maledetto telefono che teneva in mano; ancora due, tre, quattro squilli; il bip finale e poi il vuoto. Lui non rispondeva e non avrebbe mai più risposto a quel suo grido d'aiuto. La realtà più sadica era, inoltre, che anche quando aveva risposto palesemente non aveva mai dato cenno di risposta. Era stato sempre muto; non la sua voce, ma il suo cuore: un cuore muto dal nome Victor. Victor, Victor, Victor. Perfettamente e inesorabilmente Victor. Ma per Cloè era arrivato il momento di resettare quel nome; avrebbe dovuto cancellarlo dalla sua anima e non solo dalla rubrica del suo cellulare. E bisognava cancellare tutto; tutto dall'inizio di quel maledetto Settembre di tre anni fà...Tre lunghi e inesorabilmente statici anni; solo tre o addirittura tre. Pochi o molti, ma tre. Anni di vita vissuta insieme, all'insegna di un amore giurato e urlato, ma la cui eco non l'aveva mai udita nessuno. Esattamente; nessuno. Era un amore fantasma. Un amore di amanti; non di due amanti qualsiasi; ma di due amanti fedifraghi....si, rei di amare un altra persona diversa da quella che si erano già scelti, o che il destino aveva scelto per loro. Peccatori dunque; Victor e Cloè; solo due squallidissimi peccatori. Non sapevano che quel peccato sarebbe toccato proprio a loro; erano ignari del fatto che avrebbe spettato anche a loro macchiarsi di quel reato ignobile: il tradimento. Ma in fondo cos'è il tradimento se non voglia di amare ancora??Se non voglia di innamorarsi di nuovo, o di innamorarsi veramente? E' questo il tradimento, quando non è fatto solo per voglia di provare nuove sporchissime sensazioni; quando non è putridissimo sesso, allora è amore. E la pensava così la povera Cloè, che si era innamorata come una bambina; una dolcissima ragazzina che dimentica di essere in realtà una donna e una mamma di due meravigliosi bambini, nonchè moglie adorata di uno psichiatra stimatissimo e di successo. Se lo era dimenticato pure Victor quello che era, o quantomeno quello che avrebbe dovuto essere: un padre di una bambina appena nata; lo sposo modello di una brava casalinga e moglie premurosissima. Eppure capita così; capita che quando meno te lo aspetti tutte le tue certezze si volatilizzino. E cambia tutto; così d'un tratto, cambia. Cambi tu, cambia la tua vita, cambia tutto quello in cui credevi. Successe a Cloè, successe a Victor: entrambi cambiarono, ma il loro cambiamento non fu uguale. L'intensità di un simile mutamento investì entrambi ma con diverso tenore. E come succede spessissimo in questi casi, solo uno dei due amanti è in grado di ricoprirsi di un peso così gravoso qual è quello di un amore anonimo. Solo uno dei due è capace di farsi carico di un tale onere; perchè con estrema esattezza è giusto affermare che si è in due solo quando si ama, ma si è spesso uno solo quando è il momento di prendere una decisione. E la decisione toccò a Cloè; o per lo meno fu lei a decretare che era arrivato il momento di scegliere. Lei doveva scegliere tra due vite parallele; una vita e una parvenza di vita. Tra un amore ormai morto e un amore vivo ma anonimo. E, sebbene vivesse in lei il rimorso di aver peccato e di essere stata una peccatrice accanita; aveva voglia di peccare, peccare e ancora peccare: ciò perchè amava alla follia Victor e perchè l'amore talvolta, per essere bello, ha il suo prezzo. Cloè, dopo averci pensato assillantemente e in ogni santo giorno di quei lunghissimi tre anni; aveva capito di essere ormai disposta a pagare; avrebbe perso tutto, pure l'affetto e la stima dei suoi figli, per pagare quel prezzo.Adesso restava un tassello preziosissimo a completare questo puzzle di audacia estrema; Victor. Lui era il pezzo mancante. Come in una scena di un delitto; anche il più spietato assassinio ha pur sempre una sua logica: e Cloè aveva scelto di seguire un filo preciso; il filo di un reato ma pur sempre un filo. Victor no; lui cercava di eluderlo quel filo, per paura forse o per codardia estrema. Voleva creare un legame speciale, più di quanto già non lo fosse quel rapporto; se speciale può definirsi un amore nato da un tradimento. Amore anonimo; voleva che restasse così Victor, anonimo. Cloè gridava, lei voleva parlare. Basta essere muti, nascosti, inetti al mondo e alla società. Basta. Lui non ci riuscì; non trovò la forza. Ed ecco che scelse solo di non rispondere a quel telefono che squillava...Due, tre, quattro squilli; il bip finale e poi il vuoto...Il vuoto.

NELL'ATTESA DI TE - FEDERICA GALLI (32)

Nell´attesa di te
il mare si e´gonfiato d´orgoglio
e le onde hanno mangiato i piloni del porto.
Nel tumulto, le navi, sono fuggite lontane
inseguendo le tracce lasciate dai pesci.


Nell´attesa di te
anche il cielo e´mutato
ed il vento e´diventato una brezza leggera.
Ho guardato le foglie inseguirsi e mutarsi
nascondersi e poi ritornare alla vista.

Nell´attesa di te
ho alleggerito le dita
da quelle promesse, promesse per caso,
dai baci scordati tra i capelli ed il collo
dai nomi di altri,
dal rumore di strada.

Nell´attesa di te
ho abituato gli occhi alla notte
iniziando a notare le sfumature dell´ombra
prestando l´orecchio al silenzio che muta
che svanendo mi annuncia un altro tuo arrivo.

L'ALTALENA DI ALZHEIMER - FRANCESCA NAPOLI (60)

Mentre dispensi sorrisi gioiosi
basta un attimo e
cambi espressione
fai il broncio
sei scontrosa.
Se ti chiamo non rispondi.
È un gioco, lo so!
Faccio finta di arrabbiarmi
ma mi guardi smarrita e
chiedi dei tuoi “bambini”
pensi di averli lasciati soli
stai in pena per loro;
mi avvicino
ti prendo la mano
ti stringo a me
cullandomi tra le tue braccia;
allora sorridi
ti preoccupi per me
delicatamente accarezzi il mio viso e dici:
“Dove sei bambina mia?”
“Sempre vicino a te a spingere quest’altalena,
mamma.”

LA VITA - FRANCESCA SANFILIPPO (48)

COS’ E’ LA VITA?
CI DA’ ALITO, SEMBRA INFINITA
CI FA GUSTARE BEI MOMENTI
MA NON CI RISPARMIA DEI TORMENTI
CI FA VEDERE TANTI COLORI
CI FA VIVERE DEGLI AMORI
E QUANDO SEMBRA CHE TUTTO VADA BENE
NON CI RISPARMIA DELLE PENE
CI DA’ UN CREATO DA CONTEMPLARE
CI DA’ LA GIOIA DI AMARE
CI FA VIVERE BELLE AMICIZIE
CI FA STARE NELLE DELIZIE
ALCUNI DA LEI SONO MALTRATTATI
ALTRI DELUSI E DERUBATI
CON ALCUNI RESTA OTTANTA ANNI
CON ALTRI SOLO POCHI ANNI
PUO’ FAR SENTIRE DA SOLO QUALCUNO
MENTRE UN ALTRO SI SENTE NESSUNO
E’ UN MISTERO, E’ LA VITA
RICORDA IL FIORE MARGHERITA
TANTI PETALI, TANTE OCCASIONI
MA ALLA FINE TANTE ILLUSIONI
TANTI SOGNI MAI AVVERATI
E DESIDERI NON REALIZZATI
DA’ LA SPERANZA, CHE I PETALI RIMASTI
SIANO I GIORNI E GLI ANNI SENZA CONTRASTI
SENZA PROBLEMI NE’ MALATTI
E SENZA OSTACOLI NELLE PROPRIE VIE
MA POI SENZA AVVERTIMENTO
TUTTO SCOMPARE IN UN MOMENTO
E QUANDO TU PENSI: “ADESSO E’ TUTTO MIO”
TI TROVI GIA’ ALLA PRESENZA DI DIO.

TEMPO DI MADRE - MARGHERITA DE SIMONE (48)

Fascerò col tuo dolore le mani.

Per attenuare le schegge di pane.

Frammenti di ogni ieri

Che nelle sere

fabbricavano i mattoni

Che di te hanno mangiato e che

hai resi

a noi come domani.

CERTA GENTE - MICHELE CALANDRIELLO (8)

È tutto un invento
per passare il tempo
dire le cose false sulla gente
parla, parla non è prudente
non gliene importa niente
non pensano che devono morire
e con Dio i conti devono fare
se si sono comportate male.

Se pensassero ad occupare
meglio il tempo
altre cose potrebbero fare
e migliorare
anzicchè inventare;
perché il tempo passa presto
le stagioni passano in fretta
e subito passa un anno intero
saremo tutti quanti
a visitare il cielo
e le persone verranno
poi a trovarci al cimitero.